Uno chef "Regale"
Con piacere dedichiamo la vetrina ad uno dei partner, per il suo merito e la sua esperienza riportando integralmente l'articolo apparso su "Il Resto del Carlino" dell'otto settembre scorso
Gianprimo Ricci Maccarini ha lavorato per oltre 50 anni nelle cucine degli hotel più famosi del mondo, per cinque anni è stato alle dipendenze della regina Elisabetta II d’Inghilterra, ma le cose importanti le dice in dialetto. Romagnolo di Sant’Alberto, dove nacque 79 anni fa, dopo le torte per Gianni Versace,
le cene per Lady Diana e gli aperitivi sul panfilo dell’Aga Khan è
tornato ‘a casa’ e aiuta il figlio Andrea (insieme alla moglie Diana e
all’altra figlia Laura) nella gestione de ‘Le Spighe ... Non solo
piadine’ ad Alfonsine.
Chef, di solito nelle interviste si parte dalle
origini e nel suo caso è proprio inevitabile: cosa ha portato un giovane
della campagna romagnola nato negli anni ’40 fino ai migliori
ristoranti del mondo?
«Tanta tenacia. Mio babbo era fornaio ma io non volevo fare il
fornaio con quegli orari terribili! Così sono andato all’ufficio di
collocamento, avevo 13 anni, e ho detto: ‘Ma io non voglio mica
lavorare’ chiedendo cosa avrei potuto fare...E loro: ‘Perché non fai il
cuoco?'. Accettai la proposta e giovanissimo andai a Stresa, a fare la
scuola».
Suo padre come la prese?
«Malissimo! Mi inseguì col forcale» dice in dialetto ridendo.
E si appassionò subito alla cucina, già dalla scuola?
«Sì, se una cosa la fai con amore, specialmentela cucina, i risultati
arrivano. E la cucina la devi sentire, non è come mettere in fila dei
mattoni. Cominciai a viaggiare. E quando tornavo a casa, si fermavano le
donne e dicevano ‘do vut ande’? (ma dove vuoi andare?). Non è un lavoro
come un altro. Serve amore, passione. E devi sapere dove vuoi
arrivare».
Lei dove voleva arrivare?
«Io sapevo che volevo arrivare in serie A. Vengo da una famiglia
molto povera, guardavo gli altri e mi dicevo: ‘se ce l’ha fatta lui
perché io no?’ Se sono più zuccone ci metterò due mesi, un anno in più,
ma arriverò».
Fin dall’adolescenza quindi ha cominciato a vivere nelle cucine?
«Sì, dopo la scuola i ristoranti dell’Hilton, poi ho lavorato molto
in Svizzera, in Francia, in America. Oltre alla tenacia ho anche pensato
che sia stata questione di fortuna: essere lì al momento giusto».
Lei si schernisce ma ‘essere lì al momento giusto’ non è solo questione di fortuna. Non è il caso.
«È vero. Spesso penso a quando da ragazzo, non c’era il telefono,
aspettavo con ansia una lettera della mamma che mi avrebbe dato la forza
di andare avanti. Sì, è stata dura».
E poi si è trovato a lavorare con grandi chef. Le grandi
cucine sono come si racconta spesso, un luogo infernale dal quale escono
piatti paradisiaci?
«Ho lavorato con Gualtiero Marchesi, con Carnacina, con Bocuse.
Bisogna pensare che, specie una volta, le vere brigate erano composte da
30, 35 persone, non c’erano prodotti già pronti come oggi, tutto era da
preparare. E nessuno svelava i propri segreti neanche al resto della
brigata stessa. Ed era un lavoro duro, veramente, un ambiente non
facile.Ma io stesso sono molto perfezionista, non è un vezzo».
Fu faticoso anche fisicamente? (Quando tira su la manica della divisa si intravede qualche bruciatura).
«Eccome. I tagli erano all’ordine del giorno: via di sale, pepe e la
carta gialla per tamponare. Poi le bruciture: un po’ di strutto e si
andava avanti. Sempre avanti. E quando mi mettevo a sedere, stanco
morto, prendevo un bicchiere di vino e mi dicevo, in dialetto: ‘però ...
da Sant’Alberto guarda dove sei arrivato’».
Andò via da casa prestissimo ma nella sua cucina riuscì a portare le radici romagnole?
«Sì, tan’è che quando cucinavo per Mina, vicino a Lugano, grande
amante della piadina allo squacquerone e delle nostre tradizioni, il
figlio mi rimproverava scherzosamente: ‘se continui così la fai
ingrassare’. Lo squacquerone lo portavo io appena tornavo da casa. In
Svizzera hanno solo i loro formaggi, sono più furbi. Invece da noi,
oggi, una vera cucina tradizionale, che rispetti e faccia rivivere il
passato, manca».
Dove? In Romagna?
«Certo, non c’è un luogo che riporti veramente al passato così
com’era, alle tradizioni. In Amercia perfino nelle scuole insegnano a
fare i garganelli, i caplèt...».
Citava Mina, ma sono tante le personalità per le quali ha cucinato. Le richieste più assurde?
«Tante, ho raccontato anche in passato la storia della torta che
Versace volle fare per il compleanno di Madonna che doveva uscire dalla
piscina di Miami o la torta per Frank Sinatra che doveva scendere dal
cielo con due bambini vestiti da angioletti. Ma non fu solo lusso, feci
tanti sacrifici».
Pensò mai di abbandonare, di non farcela?
«Tante di quelle volte. Ma sarebbe stata una sconfitta. L’orgoglio mi
faceva andare avanti. Mi mancava la famiglia ma mi facevo forza e
mettevo la mia tenacia nei piatti. E ogni gradino in avanti mi dava
coraggio. Bisogna dire ai ragazzi che ci si deve impegnare, devono
guardare avanti, al futuro, accompagnare i sogni con la tenacia, la
fatica, la cultura, anche del cibo, solo così si arriva».
Adesso, grazie anche alle trasmissioni tv, la figura del cuoco è diventata di moda, c’è più gente nelle scuole.
«Sì, non demonizzo la tv, anzi , che ci siano più ragazzi nelle
scuole è un bene, ma quel che manca è la preparazione. Bisogna saper
pulire un maiale, conoscere i pezzi, saper pulire gli asparagi, solo per
citare le basi. Conoscere i prodotti, amarli, valorizzarli è
essenziale».
Quale pensa sia il suo piatto che è stato più amato?
«Difficile rispondere, il cliente ha il suo palato, io ho sempre
cercato, ad alti livelli, di abbinare il piatto o il menu al palato del
cliente».
Se deve scegliere un piatto che la rappresenta?
«Dopo una vita è impossibile scegliere. C’è sempre un piatto che ti
sembra più bello dell’altro o più buono. E ogni volta mi chiedo: ‘perché
non ci ho pensato prima a questo abbinamento?’».
Invece quello che le diede più soddisfazione?
«La faraona del principe Carlo. Tutti si alzarono per applaudire. Pensando fosse un’anatra".
Cioè?
«Il Principe Carlo mi chiese un’anatra all’arancia, ma io non ero
nella condizione di procurarmi un’anatra, avevamo solo la faraona. Fu
Lady Diana che, in gran segreto, mi autorizzò ad utilizzarla. E la mia
‘anatra all’arancia’ fatta con la faraona fu di grande successo».
Dopo una vita tra i fornelli lei ha ancora il piacere di cucinare, sperimentare?
«Non posso smettere! Aiuto mio figlio qui a ‘Le Spighe’. Anche se -
ride - mi dice che sono lento. Beh ho quasi 80 anni». Il piatto che ama
in assoluto? «Fagioli, cipolla e tonno».
Commenti
Posta un commento